giovedì 2 novembre 2023

Killers of the Flower Moon

5 buoni motivi per cui Killers of the Flower Moon è un film sontuoso e monumentale:


1) perché è l’opera di un Maestro arrivato all’apice della sua arte e della sua poetica e segna il culmine di una delle carriere più longeve della storia cinematografica americana: dalle prime pellicole quali Taxi Driver e Toro Scatenato fino a capolavori più recenti come The Departed e The Wolf of Wall Street, grazie anche alle collaborazioni storiche con Robert De Niro e Leonardo DiCaprio (rispettivamente la decima e la sesta con il regista italo americano), il nome di Martin Scorsese è ormai divenuto sinonimo di Cinema e a ottant’anni si dimostra ancora magnificamente in grado di intraprendere un viaggio memorabile attraverso i meandri dell'oscurità umana;

2) perché Scorsese ci racconta una storia vera che in pochi conoscono e oggi riconosciuta da tutti come un vero e proprio genocidio: Killers of the Flower Moon, infatti, è l’adattamento dell’acclamato saggio di David Grann - Gli assassini della terra rossa. Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’FBI. Una storia di frontiera - e si concentra sull'eliminazione sistematica dei membri chiave degli Osage, un popolo di nativi americani che durante la seconda metà del XIX secolo, su obbligo del governo americano, si stabilì in Oklahoma e diventò ricco grazie alla presenza del petrolio nella loro riserva. Le terre degli Osage vennero presto invase da criminali e speculatori intenzionati ad appropriarsi della loro ricchezza con qualunque mezzo necessario, omicidio compreso, il che più che un western alla John Ford rende il film un noir atipico e spiazzante;

3) perché è un racconto - torbido come il petrolio - di quel male presente in modo silente ma viscerale nella Storia americana sin dalle sue origini. Tema da sempre ricorrente nella cinematografia di Scorsese, Gangs of New York su tutti. La morale che se ne può trarre, è tanto emozionante quanto attuale in un momento in cui le questioni e le voci dei Primi Popoli vengono portate alla ribalta non solo negli Stati Uniti ma anche in Australia e nel resto del mondo: il film utilizza il matrimonio tra il viscido DiCaprio e la pura Gladstone come metafora del rapporto tra i colonizzatori americani e la popolazione dei nativi, un rapporto sempre in chiaro-scuro (proprio come la fotografia) basato sulla forza e sulla violenza, una violenza spesso più psicologica che fisica;


4) perché Killers of the Flower Moon è un film all’antica e rappresenta quel genere di cinema definito “epico” che richiede di esser visto sul grande schermo: Scorsese, infatti, non ha solo contribuito alla stesura della sceneggiatura insieme allo scrittore premio Oscar Eric Roth, ma si è anche assicurato che i costumi, le acconciature, il trucco e la scenografia ricreassero perfettamente l'epoca e l'ambientazione di inizio ‘900. Oltre a questa scrupolosa attenzione ai dettagli, sono le riprese su larga scala del direttore della fotografia Rodrigo Prieto (che aveva già collaborato con Scorsese in The Wolf of Wall Street, Silence e The Irishman) e una colonna sonora blues e rock di evocativa portata, a rendere necessaria l’esperienza in sala;

5) perché per oltre tre ore il film non ha nessuna grande accelerazione e il ritmo resta lento e quasi ipnotico: la tensione si basa invero sul bruciante e conflittuale dualismo tra due mostri sacri come DiCaprio e De Niro, grottesco il primo e mefistofelico il secondo. Ma ad aver stupito tutti per la sua delicata interpretazione è stata la straordinaria Lily Gladstone: moglie di DiCaprio e vittima simbolica del martirio di tutta la nazione Osage, è lei il vero fiore, colorato e raggiante, che rischia di venire ucciso dall’avidità e dalla perfidia dell’uomo bianco. Ottimo poi anche il cast di supporto, tra cui spiccano Jesse Plemons e un ormai ritrovato Brendan Fraser.



Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

https://www.killersoftheflowermoonmovie.com/




mercoledì 30 agosto 2023

Oppenheimer

 5 buoni motivi per cui Nolan con Oppenheimer è arrivato davvero vicino a Kubrick:

 

1) perché Nolan dirige un parterre stellare di attori e attrici, su cui spiccano Cillian Murphy e Robert Downey Junior, dando a ciascuno il giusto spazio all’interno di una storia corale nella quale – come in 2001 Odissea nello spazio – tutto è collegato: Emily Blunt, Matt Damon, Florence Pugh, Rami Malek, Josh Hartnett, Gary Oldman, Casey Affleck, Kenneth Branagh e tanti altri, sono gli atomi di una reazione nucleare a catena in cui ognuno ha la sua parte di meriti (e di colpe) a partire dagli inizi degli studi sull’atomo fino ad arrivare al bombardamento di Nagasaki e Hiroshima; 

2) perché Nolan riesce a scrivere e magistralmente a dirigere un film su Oppenheimer uomo e scienziato, che diventa un film sulla Storia anche grazie a una fotografia la cui importanza è simile a quella di Barry Lindon: lo fa per merito di una serie di scelte stilistiche che, passando senza sosta dal colore al bianco e nero, intrecciano da un punto di vista cromatico l’ottimismo intrinseco nel lavoro di Oppenheimer con la freddezza e l’asetticità della guerra e della politica;

3) perché richiamando alla memoria le implicazioni filosofiche presenti nelle maglie narrative de Il dottor Stranamore, Nolan trasforma un film storico ed epico incentrato sulla bomba atomica e sulla seconda guerra mondiale in un vero e proprio thriller esistenziale dove Oppenheimer diventa un novello Prometeo tormentato dal suo genio: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi” recita, infatti, lo scienziato citando il testo sacro indù del Bhagavad Gita dopo il primo test nucleare nel luglio del 1945, ben sapendo che – anche a causa sua – da lì in avanti il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Per tutto il film (e per tutta la vita) Oppenheimer sembra restare schiacciato dal senso di colpa di aver “solo fatto il suo dovere” di fisico senza riuscire a perdonarsi l’aver indagato il miracolo dell’atomo;












4) perché anche se Oppenheimer è un film prettamente visivo, Nolan ha chiesto a Ludwig Goransson, già suo collaboratore in TENET, delle musiche che oltre a creare una forte tensione emotiva, ben si adattassero al crescendo di preoccupazioni morali di Oppenheimer: ne esce una colonna sonora fatta di archi e violini talmente ossessivi che, al pari della Nona Sinfonia di Beethoven in Arancia Meccanica costantemente e visceralmente legata alle azioni del drugo Alex, per lunghi tratti addirittura oscura i dialoghi sullo schermo come fosse il suono di un’esplosione atomica che tutto azzera;

5) perché Nolan, grazie a una sceneggiatura che scorre via fluida per tre ore (al contrario di quanto era avvenuto in TENET), mette in piedi un’architettura in grado di raccontare i vari momenti della vita di Oppenheimer attorcigliandoli su tre diversi piani temporali: saltando avanti e indietro nel tempo e spaziando tra punti di vista soggettivi e oggettivi, Nolan sospende ogni giudizio morale su Oppenheimer limitandosi a evidenziare la complessità dell’essere diventato “il padre della bomba atomica” e le contraddizioni di un uomo chiamato a far i conti con la morte. Esattamente come il soldato Joker di Full Metal Jacket (l’indimenticato Matthew Modine tra l’altro presente anche in Oppenheimer seppur in un ruolo minore) che sull’elmetto, a fianco il simbolo della pace, aveva la scritta Born to kill a rappresentare la schizofrenia della guerra.

 

 

Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

 

https://www.oppenheimer-ilfilm.it/

lunedì 29 agosto 2022

Nope

5 buoni motivi per cui Nope è per Jordan Peele il film giusto al momento giusto: 


1) perché è un horror che però ha il grande merito di distaccarsi per forma e contenuto dalle due precedenti opere di Peele: mentre Get Out (sfolgorante pellicola d’esordio che gli ha garantito l’Oscar per la miglior sceneggiatura) e, con le dovute differenze, Us potevano essere incasellati alla perfezione nel genere, Nope – pur presentando i principali stilemi orrorifici – nel suo insieme lo è in modo atipico e sui generis, riuscendo così ad allontanare il talentuoso regista newyorkese da una classificazione che, se oggi va di gran moda pensando ad esempio a Robert Eggers e ad Ati Aster, alla lunga avrebbe corso il rischio di andargli stretta (Shyamalan insegna);
 
2) perché è un classico film di fantascienza in perfetto stile E.T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo ma, come viene intelligentemente detto da uno dei personaggi, qui non si parla più di UFO (Unidentified Flying Object) bensì di UAP (Unidentified Aerial Phenomena). E non si tratta di una distinzione solo onomastica – tant’è che anche la Nasa e il Pentagono oggi indagano ufficialmente e scientificamente questi fenomeni – ma sostanziale, perché l’alieno di Peele è lontano anni luce da quelli di Spielberg: in Nope viene descritto come un “brutto miracolo”, violenta metafora dei tempi che cambiano, essendo più un predatore territoriale arrabbiato e vorace che un simpatico omino verde alla disperata ricerca di un modo per tornare a casa;

3) perché è un western a tutti gli effetti, con tanto di ranch e cavalli, che permette a Peele di dichiarare tutto il suo amore per il Cinema grazie a quello che viene definito il “genere americano per eccellenza”. Lo fa attraverso la storia dei due fratelli protagonisti, discendenti di una famiglia di ammaestratori di animali per le Major hollywoodiane nonché pro-nipoti del fantomatico fantino che era al galoppo di un cavallo in uno dei primi esperimenti cinematografici della storia (la serie di figure Animal Locomotion del 1872 di Eadweard Muybridge). Ma soprattutto Peele sfrutta al meglio le potenzialità che il western gli concede: tecnologia IMAX per campi lunghissimi a mostrare lande desolate o cieli pieni di nuvole (nascondigli aerei semplicemente perfetti), e spericolate corse a cavallo per ricreare un immaginario che rimanda volutamente agli inseguimenti tra indiani e cow-boy;

4) perché è una lucida pellicola di denuncia e aspra critica sociale che, al contrario di quanto successo in passato, dove Peele si era concentrato sulla questione afroamericana principalmente rispetto ai temi del razzismo e delle disparità tra classi sociali, si apre ora a tutta la società: quello che viene messo sotto l’occhio del riflettore, infatti, è l’attuale smania di condivisione che trova nei social e nei media i principali strumenti per alimentare in modo morboso e alienante la voglia di “guardare”. Attraverso uno spettacolo nello spettacolo, Nope demonizza le leggi della medialità e la moderna necessità di trasformare ogni cosa e ogni momento in un show a discapito di una dimensione più intima e privata;

5) perché in fondo, al di là di qualsiasi rimando filosofico nascosto dietro alle nuvole e oltre ogni messaggio universale consacrato nella cruenta scena del massacro televisivo ad opera di una scimmia assassina (sicuramente il momento più inquietante di tutto il film con evidenti rimandi a una violenza di kubrickiana memoria), Nope è un perfetto blockbuster estivo: due ore di fughe mozzafiato, inquietanti attese, misteri angoscianti e, molto probabilmente, destinati a restare tali in nome di un orrore cosmico che il più delle volte – come ci ha insegnato Lovecraft – sfugge all’umana comprensione e alla necessità di trovare risposte a ogni fatto enigmatico. 


Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

martedì 18 maggio 2021

La donna alla finestra

5 buoni motivi per cui Una donna alla finestra è un film dal potenziale sprecato:


1) perché è un film che rilegge il capolavoro La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock (omaggiato direttamente dalla protagonista che lo guarda in tv) in una chiave di lettura talmente accessibile e immediata da risultare scontata: a stare alla finestra, questa volta non è un fotoreporter armato di macchina fotografica ma la meravigliosa Amy Adams, una psicologa costretta in casa dall’agorafobia scatenata da un profondo trauma che viene svelato nel dipanarsi della storia, resa mentalmente sempre più instabile da un’escalation di eventi che accadono all’interno della sua “prigione” fisica e psichica;

2) perché è un cast stellare a tenere in piedi un'architettura che più di una volta traballa: Amy Adams è davvero eccezionale quando viene presa dal terrore e dà vita a una performance strabiliante, l'ennesima dopo quella che l’aveva vista protagonista nel bellissimo e sofferente Elegia Americana, sempre targato Netflix. Non solo la Adams che giustamente si prende il centro della scena, ma anche due premi come Oscar Gary Oldman e Julianne Moore sono in grande spolvero, perfettamente a loro agio nel ruolo degli inquietanti vicini che sembrano divertirsi a trascinarla in una dimensione di incubo;

3) perché la regia di Joe Wright è sì elegante ma finisce con il diventare pretenziosa quando il regista britannico – perfetto e pulitissimo ne L’ora più buia – gioca a manipolare il tono del film che da thriller onirico dai tratti fortemente hitchcockiani devia su una dimensione teatrale più artefatta e posticcia, in un vortice di ansie e ossessioni che dovrebbero essere tanto della Adams quanto di noi spettatori;

4) perché i tanti omaggi a Alfred Hitchcock e le infinite citazioni a capolavori del passato come Omicidio a luci rosse di Brian De Palma, finiscono presto con l’annoiare e diventano un gioco fine a sé stesso: la dimensione meta-cinematografica viene messa al mero servizio di una trama dove realtà e finzione, sogno e incubo arrivano a confondersi e confondere un pubblico (subdolamente) ingannato dal loop delle percezioni di una Amy Adams sempre alterata da alcool e medicine;


5) perché il senso di angoscia che ogni buon thriller dovrebbe trasmettere attraverso i continui depistamenti, misteri e doppi giochi, si sfilaccia via troppo presto e, quando diventa chiaro dove Wright e tutti gli attori ci stanno portando, la trama de La donna alla finestra finisce con il diventare quasi respingente... A quel punto non si aspetta altro che termini la notte e arrivi (l’annunciato) lieto fine a svegliare la Adams dal suo incubo. 


Voto: 2 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)





domenica 7 febbraio 2021

Malcom & Marie

5 buoni motivi per cui una lite infinita tra due innamorati può diventare un ottimo film d’autore:


1) perché i due meravigliosi protagonisti, John David Washington (figlio di Denzel, recentemente ammirato in TENET) e Zendaya (giovane cantante e attrice resa famosa dalla serie tv Euphoria), danno vita a una performance fisica al limite della perfezione, dove vanità e invidia sono direttamente proporzionali alla rabbia innescata da un mancato grazie che doveva esser detto nel momento giusto. E così il momento più bello della vita dell’uno diventa per l’altra l’occasione per una recriminazione a lungo sepolta sotto la vanagloria e l’egocentrismo del compagno regista, innescando un sempre più asfissiante gioco al massacro tra i due ma soprattutto tra loro due e gli spettatori;

2) perché la sceneggiatura, ridotta al minimo e interamente basata sulla potenza e sulla ferocia dei dialoghi, assume da subito le sembianze di una violenta partita di tennis: tra continui rimandi dalla vita reale dei due alla finzione del film di Malcom, il pubblico non riesce a staccare gli occhi dalla loro lite guardando prima il devastante servizio dell’uno e poi la maligna risposta l’altra, il dritto con cui lui cerca disperatamente di mandarla fuori dal campo e l’eroico tentativo di recuperare il punto di lei;

3) perché, girato in piena pandemia, è un film dall’impianto teatrale dove gli opposti non smettono mai di attrarsi: i due attori che si insultano, si allontanano, per poi cercarsi immediatamente dopo; la perfetta fotografia in bianco e nero che tutto enfatizza (l’unico tocco di colore è il rosso iniziale del logo di Netflix); il silenzio totale di alcuni momenti cui fanno da contraltare le grida e gli insulti; le quattro mura (si fa per dire) di una casa che li contiene in modo claustrofobico e gli spazi apparentemente infiniti che stanno attorno e dove loro rifuggono;

4) perché è una storia talmente cruda, per regia e scrittura, da diventare un coraggioso manifesto di quello che dovrebbero fare (certe) pellicole: vale a dire, a detta dello stesso Malcom, arrivare dritto al cuore degli spettatori, elettrizzarli senza costringerli a cercare per forza un significato dietro alle intenzioni del regista, piuttosto che una qualsivoglia lettura politica nascosta nelle pieghe della sceneggiatura;

5) perché è un film per chi davvero ama il cinema nella sua infinita potenza comunicativa, pieno zeppo di citazioni mai gratuite visto che a parlare sono appunto un egocentrico regista, da tanti acclamato come il nuovo Spike Lee (per cui John David Washington ha recitato in BlackKklansman) o il nuovo John Singleton, e un’attrice fallita il cui unico sogno sarebbe stato quello di recitare nel capolavoro che il suo compagno ha scritto (forse) ispirandosi a lei.
 

Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)


giovedì 3 settembre 2020

TENET

5 buoni motivi per cui TENET iuc rep ivitom inoub 5:


1) perché non è solo un film sui viaggi nel tempo, anzi non lo è proprio per lo meno nel senso tradizionale che oggi attribuiamo a questo genere di film (il facile rimando va a Donnie Darko, Ritorno al futuro, Terminator e da certi punti di vista anche a Interstellar dello stesso Nolan): TENET è piuttosto un film sui viaggi "dentro al tempo" che, come viene detto al Protagonista e con una parziale rottura della quarta parete pure a noi, non bisogna cercare di capire ma ci si deve affidare all'intuito perché le immagini valgono più delle parole. Anche le spiegazioni dei personaggi che inframezzano le scene di azione, lasciano spesso il tempo che trovano e paradossalmente rendono ancor più confusionario per lo spettatore comprendere quello che sta succedendo;

2) perché TENET è intrattenimento puro, a metà tra una spy story alla James Bond e un ironico e adrenalinico heist movie: un film visivamente potente e muscoloso, a tratti senza limiti, in grado di restituire tutta la grandezza del cinema in un crescendo di spettacolarità, anche per merito di una colonna sonora incalzante che per 150 minuti alimenta una sensazione di costante oppressione; 

3) perché i protagonisti sono perfetti anche se a tratti si comportano in modo freddo e poco coinvolgente: da John David Washington (figlio del celebre Denzel e recentemente apprezzato nel meraviglioso BlacKkKlansman di Spike Lee), alias "il Protagonista", che recita con una fisicità e un’autoironia degne del miglior 007, a un Robert Pattinson che, in attesa di indossare il costume di Batman e smarcatosi dal dover dimostrare che è un attore enorme, è strepitoso nel ruolo di uno scienziato dandy sempre pronto all'azione; dalla fredda, algida e bellissima, Elizabeth Debicki nel ruolo di una bond-girl da salvare, al cattivissimo Kenneth Branagh che vuole distruggere il mondo, geniale nel suo essere un villain tanto antipatico quanto stereotipato;

4) perché contiene tutta la filosofia e l’ingegno di Nolan, sapientemente nascosti in un puzzle spazio-temporale dove (come spesso succede nei suoi film) le emozioni vengono volutamente accantonate per lasciar modo alla tensione di emergere. Da Memento a The Prestige, da Inception a Interstellar, passando attraverso i vari Batman, Insomnia e al capolavoro assoluto Dunkirk, TENET è senza dubbio il film più ambizioso del regista britannico che, forse proprio per questo motivo, si diverte in un’opera di ingegneria cinematografica a riavvolgere la storia a suo piacimento grazie a un raffinato gioco di incastri avanti e indietro (letteralmente) tra presente, passato e futuro attraverso flussi temporali tanto lineari quanto intricati;

5) perché è il film giusto per tornaral cinema e ripartire dopo che la pandemia ha messo in ginocchio (tra le tante) l’industria cinematografica: in TENET, infatti, tutto ruota attorno a una catastrofe annunciata (peggiore di qualunque altro olocausto) che il Protagonista dovrà sventare per provare a salvare il mondo. In questi mesi di attesa, sono cresciute moltissimo le aspettative attorno a questo film misterioso e "crepuscolare", alla sua trama e a cosa si nasconde dietro alla parola TENET: oggi, se si abbandona la presunzione di diventare dei fisici quantistici in grado di maneggiare il concetto di entropia, si riesce davvero a divertirsi dentro a una giostra circolare (e palindroma) che finisce quando la storia inizia con un futuro ancora tutto da scrivere.


Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)




giovedì 17 ottobre 2019

Joker

5 buoni motivi per cui Joker è il film dell’anno:


1) perché una colonna sonora maestosa ci accompagna con fare evocativo durante la trasformazione di Arthur Fleck nel Joker: lo fa da un lato con meravigliosi brani come Smile e That’s life di Frank Sinatra a fare da sfondo alle scene più importanti, dall’altro con la partitura classica firmata da Hildur Guðnadóttir, compositrice islandese che affidandosi a oscuri violini, sintetizzatori e percussioni ha creato cupe composizioni capaci di evocare magnificamente lo stato d’animo del suo protagonista;

2) perché Joaquin Phoenix è magnetico, intenso come non mai, un folle semplicemente perfetto. Ma al tempo stesso, nella sua sofferta inquietudine, riesce ad apparire anche fragile, imprevedibile e a volte dolorosamente insopportabile. Una recitazione sempre sopra le righe ma mai eccessiva, oltre venti chili persi per risultare ancor più disperato, ma soprattutto un'inquietante risata emblema ultimo della pazzia, ad accompagnare la sua lotta contro una società nemica. Richiamando esplicitamente il Travis Bickle di Taxi Driver (e qui si apre il cerchio con De Niro), Phoenix mette in scena un male reale e diffuso, che porta un individuo disfunzionale qual è Arthur ad essere elevato a simbolo del conflitto sociale; 

3) perché Todd Phillips, fino a questo momento regista solo di commedie sgangherate, è una sorprendente scoperta sia a livello visivo che psicologico, tanto da vedersi consegnare il Leone d'Oro alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia. Tutto ciò al netto di un confronto impari con Scorsese che viene omaggiato di continuo non solo nei rimandi a Taxi Driver ma anche a Quei bravi ragazzi (ancora De Niro) e sopratutto a Re per una notte dove sempre De Niro, pur di diventare un comico affermato, arriva a sequestrare il presentatore di un noto show televisivo. Grazie a una storia che sta tra realtà e finzione, Phillips disegna una Gotham City povera e violenta, simile alla New York degli anni '70, con uno stile sempre sospeso tra il patinato e il ruvido: ci racconta un personaggio noto a tutti ma in modo nuovo e originale perché se è vero che Joker si ispira a The Killing Joke di Alan Moore, nello sviluppo ne prende volutamente le distanze; 

4) perché Joker è un film che a un secondo livello di analisi parla di conflitti di classe, di una città che brucia di rabbia e di un'economia sanguisuga che toglie alla gente il diritto di essere curati, di avere un lavoro, finanche di esistere. E se la sola risposta che Gotham riesce a dare è affidare il suo futuro a un miliardario di nome Thomas Wayne, il punto diventa allora come trasformare una rabbia individuale in sommossa collettiva: la risposta è nascosta dietro a inquietanti maschere da clown (che ricordano quelle di V for vendetta, serie a fumetti scritta dalla stesso Alan Moore) che fanno dell’angoscia non solo la cifra stilistica di questo Joker, quanto quella ideologica a simboleggiare un mondo alla deriva che si consuma una sigaretta dopo l'altra;

5) perché non c'è nessun dubbio che questo Joker non sia un folle qualunque, bensì il vero arcinemico e nemesi di Batman, ragione ultima della sua stessa esistenza: eroe ed anti-eroe, uno nero l'altro variopinto, uno perennemente arrabbiato l'altro sempre ghignante, uno rigido e morale l'altro imprevedibile e anarchico. Ma se è noto come Bruce Wayne sia diventato Batman (tanto che qui bastano un paio di veloci rimandi a villa Wayne e alla scena dell'assassinio dei suoi genitori fuori dal teatro) perché tanto tutto è già stato narrato, nulla invece si conosce delle origini del Joker: per questa ragione Joker non tralascia niente e, anzi, entra così tanto nel dettaglio da arrivare infine a farci dubitare della sua stessa autenticità. 


Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)