domenica 28 dicembre 2014

Big Hero 6

5 buoni motivi per considerare il cinquantaquattresimo lungometraggio Disney come uno tra i migliori di sempre, se non il migliore (non ci fosse Up...):



1) perché anche se la storia è semplice e lineare (cosa che non potrebbe essere diversamente trattandosi di un film per bambini), tutto funziona alla perfezione: pur immaginando con facilità quello che succede nella scena successiva, infatti, Big Hero 6 riesce a coinvolgere, entusiasmare ed emozionare soprattutto perché il tema del lutto, già affrontato in altri film Disney (Bambi Re Leone su tutti...), qui viene portato davvero all'esasperazione

2) perché per innamorarsi di Baymax, un robot bianco senza volto ma lo stesso più espressivo di tanti attori in carne e ossa, ci vogliono cinque minuti a impiegarci tanto. E ancora meno ce ne vogliono, dopo averlo visto combattere con l'armatura rossa che ricorda da vicino quella di Iron man, per decidere di comprarsi - a qualunque costo! - il pupazzo;

3) perché graficamente è di un altro pianeta e la scenografia è un'invenzione a dir poco geniale: una città immaginaria - San Fransokyo - che fonde innumerevoli elementi della cultura nipponica con l'eleganza tipica delle strade di San Francisco. Ma a essere inarrivabili sono soprattutto le scene di volo di Beymax che fanno sembrare ordinarie addirittura quelle di Dragon Trainer 2;




















4) perché dopo anni di principesse più o meno sdolcinate (Rapunzel prima e Frozen poi, intervallate da un inutile film su Winnie Pooh e per fortuna da Ralph Spaccatutto), ora si parla finalmente di robot, di guerrieri e, seppur con le dovute cautele, di supereroi. Curiosità: Big Hero 6  è liberamente ispirato a un fumetto pressoché sconosciuto di fine anni '90 della Marvel, anch'essa ora di proprietà Disney; 

5) perché c'è il più bel cattivo Disney di sempre sia a livello di immagine che di piano criminale messo in atto: una riuscitissima sintesi tra Magneto, uno qualunque dei supercattivi di 007 e, grazie alla meravigliosa maschera kabuki indossata, uno appena uscito dalla Tana delle Tigri.

 






Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)





mercoledì 27 agosto 2014

Grand Budapest Hotel

5 buoni motivi per guardare Grand Budapest Hotel e scoprirsi di fronte a un'opera d'arte surrealista:


1) perché Grand Budapest Hotel è a tutti gli effetti un film d’azione ambientato all'inizio del Novecento nell'immaginaria repubblica mitteleuropea di Zubrowka, il primo di Wes Anderson a sconfinare in questo genere nonostante un avvio da commedia leggera: pieno zeppo di fughe rocambolesche e folli inseguimenti, di travestimenti ridicoli e sparatorie sconclusionate, con tanto di colpo di scena finale alla Alfred Hitchcock, ha l'enorme pregio di non perdere per strada la personale e raffinata percezione del mondo del regista texano, qui giunto alla sua ottava fatica;

2) perché è bizzarro e spiazzante il meccanismo in base al quale durante il film il formato dello schermo cambia in base al periodo storico di riferimento: si passa dal panoramico per le scene ambientate al giorno d'oggi, al wide screen (più stretto e lungo, tipo Cinemascope) per quelle negli anni Sessanta, fino al classico Academy (quasi quadrato) per gli anni Venti e Trenta 

3) perché il ricco cast è, in una parola, magnifico: questo vale sia per gli attori feticci di Anderson (Bill Murray, Adrien Brody, Tilda Swinton, Willem Dafoe, Owen Wilson, Edward Norton) che per quelli alla loro "prima volta" (Jude Law, Léa Seydoux, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric). Su tutti ovviamente un istrionico Ralph Fiennes, per il quale il regista ha appositamente scritto il ruolo del concierge del Gran Budapest Hotel, vanesio e permaloso ma (in fondo...) sopratutto leale e altruista; 

4) perché all'interno della storia (sia quella in senso stretto che ci racconta il film, sia quella con la S maiuscola che gli fa da sfondo), ce ne sono tante altre fantasiosamente assurde: per citarne una, quella della setta segreta delle "Chiavi Incrociate", una misteriosa confraternita clandestina che riunisce i concierge dei migliori alberghi di tutto il mondo e in grado di influenzare i destini delle persone;

5)  perché l'estetica di Grand Budapest Hotel è quella calda e colorata tipica dei film di Wes Anderson (sebbene un progressivo incupirsi dei colori con l'avvento della guerra). Sempre a metà tra fiaba e realtà, ogni costume, ogni scenografia, ogni scena, risulta elegantemente costruita, e ci sono alcuni dettagli vintage che, pur apparendo per pochi secondi, faranno impazzire gli appassionati: dal modellino dell'hotel che in realtà non esiste (pur essendo classificato su Trip Advisor come "il migliore hotel della Repubblica di Zubrowka") ai quotidiani immaginari ricostruiti alla perfezione, così come i tanti "preziosi" dolcetti preparati da una pasticceria tedesca addirittura in base a precise indicazioni del regista    



Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)




venerdì 25 luglio 2014

47 Ronin

5 buoni motivi per considerare 47 Ronin un colossale "pasticcio" di genere:


1) perché se alla mitologia orientale si mischiano vicende storiche abbondantemente falsate, scene di azione più o meno credibili, una serie ridondante di elementi fantasy, e infine ci si aggiunge anche una sciatta love story (tagliata apposta per dare un senso alla presenza di Keanu Reeves), il rischio non può che essere quello di un blockbuster mal riuscito che magari accontenterà qualche teenager ma di sicuro non soddisferà in alcun modo gli amanti dei samurai-movie;

2) perché se per tutto il film si fatica ad appassionarsi a una storia che quasi mai raggiunge livelli di tragicità adeguati, non c'è traccia di epicità nemmeno nel momento clou di 47 Ronin, quello del seppuku (suicidio) collettivo finale, che viene inspiegabilmente tagliato per lasciar spazio all'ultimo sguardo d'amore tra il mezzo-sangue Kai (Keanu Reeves) e la sua amata;     


3) perché quella dei ronin (termine infamante utilizzato per i samurai rimasti senza padrone) che danno il titolo al film, è una leggenda giapponese molto antica che trova le sue origini addirittura all'inizio del XVIII secolo: in seguito all'ingiusta morte del loro signore, 47 nobili samurai andarono in cerca di vendetta ben consapevoli che il loro eroismo li avrebbe condotti al suicidio avendo dovuto disobbedire a un ordine dello Shogun. Ma l'adattamento hollywoodiano perde assolutamente di vista il cuore di una parabola destinata a celebrare i massimi valori nazionali del Giappone (onore, lealtà e sacrificio), per esaltare invece un eroe unico mosso più dall'amore perduto che non dal resto, finendo col lasciare i nobili guerrieri quasi sempre sullo sfondo di una vicenda personale;
     
4) perché Keanu Reeves si impegna davvero quel minimo sindacale (probabilmente anche meno vista l'espressione monocorde che lo accompagna dalla prima all'ultima scena...) necessario per portarsi a casa la pagnotta e risalire in vetta alla classifica 2013 degli attori più pagati al mondo; 

5) perché la computer grafica utilizzata per dar vita a streghe, demoni e mostri vari, è a dir poco pessima, soprattutto tenendo conto degli sforzi economici complessivi della Universal per questo film (175 milioni di dollari in tutto): alcune scene di combattimenti, che molto probabilmente nei piani iniziali dovevano avere un respiro epico alla Ran, finiscono addirittura col ricordare un film della Asylum.    



Voto: 1 stellina e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)



martedì 3 giugno 2014

X-Men: Giorni di un futuro passato

5 buoni motivi per considerare il settimo film sugli X-Men (probabilmente) come il più riuscito della saga:


1) Perché Bryan Singer, dopo anni di assenza, tiene in piedi senza sbandamenti un continuum temporale che intreccia le vite e le sorti degli X-Men del futuro con quelle del passato, al fine di ricostruire un presente che altrimenti – per colpa di Mystica – avrebbe inesorabilmente condotto allo sterminio dei mutanti. Attraverso la coscienza di Wolverine, si passa da un futuro distopico alla Matrix, con tanto di sentinelle cacciatrici, a un passato colorato e funkeggiante dove sembra che Logan, il Professor X, Bestia e addirittura Magneto siano costantemente in procinto di andare a un concerto dei Pink Floyd o dei Bee Gees. 

2) Perché alcune scene sono ben al di sopra della media di tutti gli X-Men passati: su tutti la prova di forza di Magneto quando solleva in aria uno stadio da baseball e soprattutto la scena in cui Quicksilver - un mutante che si muove alla velocità della luce e che parteciperà anche al prossimo The Avengers - libera a suon di musica lo stesso Magneto addirittura da una prigione sotto al Pentagono, dove era stato rinchiuso per l'omicidio di Kennedy. 



3) Perché il rapporto di amore-odio tra Xavier e Magneto - da sempre il fil rouge sotteso alla lotta fratricida tra i mutanti - raggiunge picchi davvero impensabili, anche per merito di una Mystica costantemente in bilico tra la Raven, fragile, insicura e ancora dipendente dal primo, e quella matura, fredda e letale che tutti conosciamo come il vero braccio destro del secondo.

4) Perché se è vero che da un punto di vista concettuale il film pare debitore - tra gli altri - di Ritorno al Futuro, Matrix e soprattutto Terminator, è altrettanto vero che Giorni di un futuro passato, il fumetto Marvel del 1981 da cui è liberamente ispirato, è arrivato ben prima della maggior parte di queste pietre miliari del genere a trattare il tema dei viaggiatori nel tempo che riscrivono il futuro.

5) Perché per una volta assistiamo a un film che non si basa solo e soltanto sull’innegabile carisma di Wolverine, riuscendo invece a far convivere due generazioni di mutanti ai quali viene concesso lo spazio che meritano sia sullo schermo che nell’azione. Ne esce un film sugli X-Men per la prima volta davvero corale che sfrutta a pieno le diversità e le potenzialità dei tanti personaggi Marvel presenti, nessuno sovrabbondante nella trattazione ma tutti utili, in un modo o nell'altro, per chiudere un cerchio iniziato nel 2000. 























Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

www.x-menmovies.com 


venerdì 14 marzo 2014

Snowpiercer

5 buoni motivi per non considerare esagerati i paragoni altisonanti (e all'apparenza quasi blasfemi) che sono stati fatti tra Snowpiercer e alcune pietre miliari della fantascienza, da Blade Runner Matrix passando per Brazil e V for Vendetta:


1) perché Snowpiercer scorre inarrestabile per due ore proprio come il gigantesco treno rompighiaccio in perenne movimento (lo Snowpiercer appunto) sul quale, dopo che una glaciazione ha provocato l'estinzione del genere umano, sono confinati da 17 anni gli unici superstiti. Lo spettatore viaggia tra una carrozza e l'altra, attraverso micro-mondi blindati e diversissimi tra loro seppur confinanti, dalla terza classe alla prima, immerso in uno scenario glaciale di una potenza visiva devastante, fatto di immense distese bianche e città deserte interamente ricoperte di neve. Di sfondi post-apocalittici del genere se ne sono visti tanti, per dirne uno quello de L'esercito delle 12 scimmie, ma pochi sono risultati tanto evocativi e pittorici. 

2) perché lo Snowpiercer è metafora di una società distopica dove i poveri e i derelitti sono confinati negli ultimi vagoni del treno, schiavizzati e trattati come bestie, mentre i ricchi soggiornano impietosi nelle prime carrozze pensando solo al loro lussurioso e futile divertimento. Ma in ogni società la rivoluzione è sempre dietro l'angolo e allora ecco arrivare la ribellione degli oppressi guidati dal leader Curtis (Chris Evans): un rivoluzionario, proprio come era stato V in V for Vendetta, che vuole conquistare la testa del convoglio, la "Sacra Locomotiva", e spodestare il fantomatico Wilford (Ed Harris), colui che prima ha creato il treno, poi lo ha diviso in classi sociali immutabili, per divenirne infine guardiano e controllore. 


3) perché i personaggi sono stati costruiti, vestiti e truccati con estrema sapienza e con uno stile fumettistico (non dimentichiamoci che Snowpiercer è tratto dalla serie a fumetti francese La Transperceneige) che rimanda in modo volutamente sfacciato a Brazil, il grottesco capolavoro fantascientifico di Terry Gilliam. Su tutti una occhialuta e irriconoscibile Tilda Swinton, nel ruolo della sadica e crudele Ministra, in un'interpretazione destinata a diventare cult.

4) perché l'atmosfera claustrofobica che si respira all'interno dei vagoni (tutti ipertecnologici benché gli ultimi siano cupi e degradati mentre, procedendo verso la testa del treno, gli scompartimenti diventino sempre più sgargianti e pacchiani), non impedisce ai protagonisti una serie di combattimenti tipicamente di genere: violenti e adrenalinici, quasi in stile videogame, ma a tratti anche poetici. Un po' come quelli ormai leggendari di Neo in Matrix

5) perché Snowpiercer è un vero gioiello, a metà tra poesia e violenza, tra film d'autore e blockbuster, che grazie alla mano sapiente del coreano Joon-Ho Bong  (autore tra gli altri di Old Boy) ci spinge a una riflessione a più livelli sulla natura dell'uomo di cui mostra il lato più oscuro. E lo fa lasciandoci letteralmente sospesi tra lo smarrimento totale e una fievole speranza, come già fece Ridley Scott (e Philip K. Dick prima di lui) con Blade Runner


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)



mercoledì 5 febbraio 2014

The wolf of Wall Street

5 buoni motivi per considerare Scorsese e DiCaprio la più grande coppia del cinema di oggi:





1) perché DiCaprio, con un'interpretazione a dir poco regale, regge da solo il peso di una storia cupa, grottesca ed eccessiva in ogni sua sfumatura (non solo per le tre ore del film), che volutamente Scorsese gli cuce addosso senza dargli modo di rilassarsi nemmeno per un secondo. E lo fa ben sapendo che è l'unico attore della sua generazione che non ne sarebbe uscito ridimensionato. Anzi.

2) perché il broker Jordan Belford è un personaggio che sta agli antipodi rispetto ai tanti altri leggendari raccontati nel corso degli anni da Scorsese (da Jack La Motta in Toro Scatenato a Travis Bickle in Taxi Driver, da Henry Hill in Quei bravi ragazzi a Sam "Asso" Rothstein in Casinò), senza nessuna traccia di moralità né di nobiltà, che però alla fine ha il merito di lanciare un messaggio forte e chiaro - seppur involontario - contro quel mondo fumoso, per certi versi inebriante, che è la finanza e Wall Street in particolare. Per farlo Scorsese non sceglie la strada moralizzatrice come già fatto da Oliver Stone in Wall Street appunto, bensì quella più rischiosa di "vomitare" un film sfrenato e lontano dal suo cinema abituale (se vogliamo l'opposto del precedente Hugo Cabret), con la convinzione che per combattere certe battaglie ci vogliono le armi giuste.        

3) perché Scorsese e DiCaprio amano giocare a rincorrersi in un luna park barocco dove tutto è lecito e non esistono eccessi di colori, di suoni, di azioni, di pensieri, di sentimenti. E quindi se Scorsese si diverte a cambiare vorticosamente ritmo, toni e scelte stilistiche, gli risponde DiCaprio passando con nonchalance dall'essere sodomizzato con una candela accesa a una scena epica in cui, strafatto, striscia per strada come un verme. Verrebbe da dire come IL verme che è. 

4) perché se quello di Scorsese è un cinema fatto da sempre di sogni, questa volta a DiCaprio fa vivere un incubo ipercinetico, popolato da nani, scimmie e prostitute, imperniato sul sesso e sulla droga, dove la velocità con cui si ascende al paradiso (economico) è direttamente proporzionale alla violenza della caduta (morale).

5) perché The wolf of Wall Street è il loro quinto film dopo Gangs of New York, The Aviator, The Departed e Shutter Island (in questo senso De Niro è ancora lontano...) e ha ricevuto 5 nominations all'Oscar tra cui quelle di miglior film e miglior attore protagonista (che questa volta sarebbe davvero delittuoso non dare a DiCaprio).








Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

venerdì 17 gennaio 2014

Capitan Harlock

5 buoni motivi per considerare Capitan Harlock un'equazione risolta in modo un po' approssimativo e prescindendo spesso dalle incognite di partenza (il Capitano, le battaglie spaziali, la trama, la tecnica grafica di realizzazione, etc):


1) perché, innanzitutto, Capitan Harlock non è un film su Capitan Harlock (!) che per la maggior parte del tempo se ne resta silenzioso in disparte sullo sfondo. Per aumentarne l'alone di inafferrabilità, di fascino e di mistero, certo, ma lo stesso si tratta di una scelta che lascia inappagati gli amanti del celebre pirata spaziale. 

2) perché va bene che stiamo parlando di fantascienza (nodi temporali, civiltà aliene, materia oscura...) ma nell'evolversi degli eventi non si possono dare per scontati dei passaggi chiave con la scusa che tanto è "solo" fantascienza! anzi, proprio perché di fantascienza si tratta, è lecito aspettarsi sempre spiegazioni logiche, ponderate e razionali. Se ad esempio Mime (della quale non si approfondisce minimamente il background e quindi non si sa quanto e perché sia devota al Capitano) prende la decisione di sacrificarsi, come fa poco dopo a tornare per riprendere il suo posto davanti al motore dell'Arcadia?! Se si accetta che le cose succedono e basta, il rischio è quello di entrare nel mondo della "magia" che nella fantascienza, si sa, non è mai un espediente narrativo accettabile!

3) perché va bene il messaggio ecologista, ambientalista, umanitario e chi più ne ha più ne metta, ma Capitan Harlock in fondo era la storia (complessa e raffinata) di un pirata tanto idealista quanto romantico... Mentre in Capitan Harlock appare più che altro come un soldato ribelle disposto addirittura a sacrificare la terra e l'umanità pur di difendere i suoi ideali. Insomma, si possono mettere in conto alcuni cambiamenti rispetto alla storia originaria dato che si tratta pur sempre di una rivisitazione del capolavoro di Matsumoto, ma che diventi più simile a un qualsiasi episodio di Star Wars è dura da digerire.
      
4) perché la storia del rapporto di odio e amore tra Yama ed Ezra, i due fratelli che sono i veri protagonisti di questo film, è troppo debole e alla fine si perde il conto di quante volte entrambi passino da una parte all'altra senza approfondire psicologicamente le loro scelte in modo che le stesse risultino credibili e inattaccabili.  

5) perché, nonostante quanto sopra, ammirare l'Arcadia che - battendo epicamente bandiera pirata - sfreccia nello spazio, nera, imponente e fiera, ci fa ricordare perché sono trent'anni che amiamo incondizionatamente Capitan Harlock, con il suo lungo mantello, la cicatrice e la benda sull'occhio: "nel suo occhio c'è l'azzurro // nel suo braccio acciaio c'è // nero è il suo mantello mentre il cuore bianco è" 
  



Voto: un pallino (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il pallino rappresenta quei film da cui ci si aspettava tanto ma in un certo qual modo ci hanno delusi)