giovedì 1 febbraio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

5 buoni motivi per cui Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film rabbioso ma allo stesso tempo dolce che sta meravigliosamente a metà tra Quentin Tarantino e i fratelli Coen:


1) perché Frances McDormand (moglie di Joel Coen e già splendida protagonista di Fargo per cui giustamente vinse l'Oscar) è Mildred, una madre furiosa a causa dello stupro e dell'omicidio della figlia, in cerca di giustizia e vendetta proprio come lo era Beatrix Kiddo (Uma Thurman), la Sposa di Kill Bill. Ispirandosi addirittura a John Wayne nella camminata, l'attrice qui premiata con il Golden Globe come miglior protagonista e nominata agli Oscar, è una donna che non si arrende di fronte a nessuno, capace con la sua rabbia e le sue azioni di generare un vortice di conseguenze quasi sempre catastrofiche: un vero e proprio cowboy in gonnella che affitta tre cartelloni pubblicitari per gridare al mondo tutta la sua ira verso la polizia, colpevole - per lo meno a suo dire - di non fare nulla per trovare l'assassino della figlia, un giustiziere solitario senza paura e con niente da perdere perché tanto ha già perso tutto; 

2) perché la sceneggiatura del regista Martin McDonagh (premiata sia a Venezia che ai Golden Globe e nominata agli Oscar) è un po' un western alla Django Unchained e un po' una dark comedy con uno stile che ricorda l'umorismo nero de Il grande Lebowsky: Tre manifesti a Ebbing, Missouri danza sulle note di un rocambolesco miscuglio di razzismo e omofobia, rabbia e violenza, ma anche su quelle dell'amore e della generosità. E in questo senso il personaggio più compassionevole si dimostra un sempre più enorme Woody Harrelson (tra le altre cose protagonista nel '94 di Natural Born Killers la cui prima sceneggiatura venne scritta proprio da Tarantino, seppur poi radicalmente modificata da Oliver Stone) nei panni di Bill Willoughby: destinatario diretto delle accuse di Mildred in quanto capo della polizia di Ebbing, si rivela capace di sfumature impensabili e di gesti infinitamente magnanimi (per quanto brutali...) pur di aiutarla a scoprire la verità; 


3) perché Sam Rockwell (anche lui Golden Globe come migliore interpretazione da non protagonista e nominato agli Oscar) è gigantesco nell'impersonare un agente brutale ai limiti dell'idiozia, l'esatto opposto della poliziotta interpretata dalla stessa Frances McDormand in Fargo. Pur essendo il peggio del peggio della polizia di Ebbing, per quanto capace di atti violenti e razzisti verso tutto e tutti, in fondo non è nient'altro che un irrisolto mammone dal cuore smisurato: la dimostrazione vivente che le azioni di Mildred e (il sacrificio) di Willoughby possono servire a qualcosa e che anche gli esseri umani più disperati hanno la possibilità di intraprendere viaggi verso luoghi inesplorati quando si abbandonano alla calma e all'amore; 

4) perché Ebbing Non è un paese per vecchi ma semplicemente una surreale cittadina dell'America del sud intrisa di un rancore a tratti viscerale: che tu trapassi il pollice di un dentista col suo trapano o butti dalla finestra un venditore di annunci pubblicitari o sfiguri un poliziotto con delle bombe molotov, tanto non ti succederà niente perché in fondo ogni azione si giustifica come conseguenza di quella prima! Tuttavia, in questo concentrato di violenza che innesca solo altra violenza come fosse un incendio che si autoalimenta con l'odio, quando meno te lo aspetti è proprio quel fuoco dirompente a risolvere ogni cosa diventando una luce nella notte che illumina anche le anime più oscure, finalmente in grado di perdonare e andare oltre;

5) perché al netto dei rimandi a Tarantino e ai Coen, McDonagh crea uno stile suo, sempre in bilico tra il comico e il drammatico, per raccontare un'America profondamente disillusa e capace di atti estremi dal punto di vista fisico e morale. Ma dopo aver ammiccato alla furia di alcune scene de Le Iene o de L'uomo che non c'era, il regista britannico riesce infine a disseppellire le coscienze dei suoi personaggi, i quali (dopo aver inizialmente affidato a tre manifesti un messaggio pieno di rabbia) si riscattano proprio grazie a tre lettere dense d'umanità: si chiude così un cerchio perfetto con un dialogo poetico che, pur senza risolvere il dilemma tra giusto e sbagliato di cui tutto il film è pregno, ha il merito di indicarci la strada della redenzione e della speranza.


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)




martedì 23 gennaio 2018

Knight of Cups

5 buoni motivi per cui Knight of Cups è il capolavoro allegorico di Terence Malick, perfettamente in bilico tra filosofia e metafisica:


1) perché Knight of Cups è un flusso di coscienza ininterrotto che ci mette in contatto con le le più profonde sfumature filosofiche del cinema di Terence Malick, qui a livelli di assoluta perfezione estetica e stilistica. La sua è una poetica d'avanguardia, sempre più sperimentale e astratta, che senza mai risultare vaga né confusa ci mostra la metaforica "ricerca della perla" in cui è impegnato il peregrino errante protagonista del film: Christian Bale, già Cavaliere Oscuro nei panni di Batman, diventa il "Cavaliere di Coppe" (figura dei tarocchi), uno sceneggiatore di Hollywood depresso per la morte del fratello di cui si sente colpevole, che si muove verso la trascendenza cercando il senso ultimo della vita, mentre una voce fuori campo - tratto sempre più distintivo di Malick - ci accompagna nel suo peregrinare non prestando caso a quello che succede intorno a lui, ai dialoghi né tanto meno a una appena accennata trama;


2) perché il processo di "depersonalizzazione" degli attori iniziato da Malick con To The Wonder, fa ruotare personaggi di cui a malapena conosciamo i nomi esclusivamente attraverso quello che accade intorno a loro, astraendoli e rendendoli metafore ambulanti in cerca di amore. Allora Bale ma anche Cate Blanchett, Natalie Portman e le altre carte dei tarocchi (a ciascuna delle quali è dedicato uno degli otto capitoli in cui è diviso il film) diventano l'essenza di tutta l'umanità e le loro vite sono spese a testimoniare e sperimentare. I loro sguardi sono ciò che conta, i loro corpi diventano mezzi attraverso i quali le anime camminano attraverso il mondo, rendendo il film del tutto indipendente dai personaggi stessi... ridotti infine a semplici punti di connessione delle immagini;



3) perché la musica scelta da Malick per accompagnare i pensieri del Cavaliere e di tutte le altre figure che - danzando - si alternano nel susseguirsi dei capitoli, è talmente potente e al tempo stesso leggera da riuscire a fondersi emozionalmente con ogni luogo mostrato: in un arido deserto o davanti all'oceano sconfinato, nella hall di un gelido palazzo postmoderno o in un incantevole giardino zen, una ubiqua musica ultraterrena non smette mai di accompagnarci nella ricerca spirituale di un senso definito e definitivo delle cose;  

4) perché la dolce serenità della fotografia di Emmanuel Lubezki (tre volte premio Oscar per Gravity, Birdman e Revenant), assume costantemente valore di significato con risultati a dir poco sorprendenti: così un'autostrada dove milioni di macchine sciamano come elettroni diventa un affascinante albero cosmico, mentre uno strip club ci appare come uno scintillante e psichedelico angolo di inferno, rendendo infine ancora più densa la metafora di Malick;

5) perché il messaggio che la scomparsa di ogni cosa ci porta in dono nell'ultima scena, per quanto ambiguo e disorientante, diventa LA domanda: "Dove stiamo andando davvero?" E quando, infatti, il Cavaliere abbandona il tempio e scompare per dare spazio alla luna, la telecamera di Malick si muove verso l'altro con un movimento misterioso e imperscrutabile verso l'infinito, lasciandoci in dote un messaggio che potrebbe essere indifferentemente positivo o negativo... a seconda del fatto che il Destino decida di mostrarci la carta dei tarocchi al dritto o al rovescio.



Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

www.theknightofcupsmovie.com