venerdì 16 dicembre 2016

Sully

5 buoni motivi per cui Sully è uno dei migliori film di Clint Eastwood, anche se in apparenza potrebbe non sembrarlo:


1) perché la storia narrata è talmente miracolosa (tant'è che il libro su cui si basa è intitolato proprio Miracolo sull'Hudson) da permettere a Clint Eastwood di non usare alcuna retorica per far passare il capitano Chesley "Sully" Sullenberger indenne dall'inchiesta che deriva dall'ammaraggio del volo US Airways 1549 sul fiume Hudson e celebrarlo per quello che a tutti gli effetti è: un eroe che in 208 secondi ha salvato da morte probabile 155 persone grazie a un'impresa eccezionale quando, in seguito a un "bird strike" (termine tecnico per indicare l'impatto con uno stormo di uccelli), il suo aereo aveva perso entrambi i motori e non sarebbe riuscito a tornare all'aeroporto di LaGuardia né ad atterrare in un altro più vicino;

2) perché la regia di Clint Eastwood è, in una sola parola, perfetta: ogni inquadratura, ogni movimento di camera, ogni scelta stilistica per quanto apparentemente "banale", finisce con l'essere indimenticabile proprio perché vuole richiamare la straordinarietà dell'impresa di Sully in tutta la sua paradossale semplicità e soprattutto il suo non voler apparire eccezionale nemmeno nel momento in cui tutto il mondo lo idolatrava in modo quasi morboso. Sully è la pellicola più corta (solo 95 minuti) del regista ottantaseienne e forse anche una tra le più difficili dato che, basandosi su un fatto vero, tutti conoscevano perfettamente la storia e quindi sapevano come sarebbe finita: eppure per tutto il film si sta in una condizione di equilibrio precario (proprio come i passeggeri del volo mentre stava ammarando) legata alla ricerca di una costante conferma da parte di Sully sulla bontà della sua scelta;



3) perché Tom Hanks è (ancora una volta) sublime nel far trasparire tutta l'umanità e il bisogno di esser rassicurato di un pilota che riesce a compiere un gesto straordinario, unicamente grazie alla sua esperienza e al suo istinto, facendolo poi passare "solo per il suo lavoro": nessun altro attore sarebbe stato in grado di incarnare lo sguardo sensibile di un eroe così umano da voler schivare in ogni modo le attenzioni legate a un'azione che, inevitabilmente, non poteva non richiamare alla mente dei newyorchesi la tragedia dell'undici settembre. Un plauso anche a un ottimo Aaron Eckhart nei panni del copilota Jeffrey Skiles, nonché grande amico di Sully, che gli fa magistralmente da spalla non solo sull'aereo ma soprattutto nel successivo cancan mediatico;

4) perché New York (in conseguenza del disastro delle Torri Gemelle) è smaniosa di dimostrarsi eroica nel farsi trovare pronta ad aiutare Sully e i passeggeri dell'aereo ammarati sull'Hudson. Poi anche umanamente meravigliosa nei tanti volti di coloro che riconoscono in Sully - per strada, nei bar piuttosto che in televisione da David Letterman - il loro eroe andando al di là, addirittura ignorandolo, del processo aperto obbligatoriamente dal National Transportation Safety Board dopo l'atterraggio di emergenza per verificare che la decisione presa in volo fosse effettivamente quella giusta;


5) perché, pur nella apparente linearità della vicenda raccontata, gli spettatori possono rivivere la stessa storia più volte, prima nella testa di Sully, poi nei panni dei passeggeri e infine in quelli della Giuria e dell'opinione pubblica: un'esperienza totale che passa dall'incubo del pilota con cui si apre il film, al terrore provato durante l'incidente, per finire all'oggettività dell'inchiesta con cui si restituisce al pilota il suo ruolo di eroe fragile e silenzioso.


Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)


www.sully-movie.com





sabato 6 agosto 2016

Boyhood

5 buoni motivi per cui Boyhood è un film epocale che si vede una sola volta nella vita:


1) perché impegnarsi per 144 mesi (iniziato nel lontano 2002 e portato a termine ben 12 anni dopo, al netto di una quarantina di giorni di di riprese!) è stato un vero e proprio atto di fede da parte di Richard Linklater e di tutti gli attori coinvolti: non solo Ellar Coltrane, il bambino di appena sei anni scelto come protagonista e le cui (non) avventure seguiamo per le quasi tre ore del film, ma anche Ethan Hawke, Patricia Acquette (giustamente premiata con l'Oscar per la sua interpretazione) e Lorelei Linklater, la figlia del regista nei panni della sorella maggiore. E la macchina da presa di Linklater (Orso d'Argento a Berlino per la regia) riesce a cogliere ogni cambiamento, ogni minima trasformazione non solo fisica ma anche e soprattutto interiore: bambini che diventano uomini, giovani che diventano padri, finché tutti alla fine trovano il loro posto nel mondo... e noi con loro;

2) perché se già con la struggente trilogia di Jesse (sempre Ethan Hawke) e Celine (un'incantevole Julie Delpy) Linklater aveva sperimentato attorno alla sua poetica di regista il concetto dello scorrere del Tempo, con Boyhood riesce a raggiungere un altro livello esperienziale: mentre allora lo aveva fatto attraverso la descrizione di tre giornate passate insieme dai due ragazzi nell'arco di vent'anni (Before Sunrise, 1994 - Before Sunset, 2004 - Before Midnight, 2013), con Boyhood mette in scena il vero fluire della vita non limitandosi a un collage di immagini disseminate nel tempo e fine a loro stesse. Tanti elementi uno dietro l'altro, infiniti piccoli accadimenti mai romanzati e che proprio per questo emergono con la stessa naturalezza con cui le nostre esistenze ci attraversano;


3) perché tutto il film è una riflessione intima ed essenziale ma al tempo stesso con una dimensione epica sulla natura umana e su tutte le fasi che l'attraversano: dall'infanzia alla fanciullezza, dall'adolescenza alla vita adulta, una parafrasi in cui come simbolicamente sancisce il dialogo finale "non siamo noi a cogliere l'attimo, ma sono gli attimi a cogliere noi stessi, conferendo significato al presente". Attimi semplici, a volte addirittura banali, che però grazie all'umanità dei suoi protagonisti raggiungono quasi sempre profondità insondabili;

4) perché la storia di Mason/Ellar, pur essendo senza dubbio un romanzo di formazione individuale, attraverso il racconto delle vicissitudini di una famiglia comune, si rivela in grado di dipingere un affresco completo su dodici anni di vita in America e più in generale, da un punto di vista politico, culturale e tecnologico, sull'evoluzione storica che nel frattempo è intercorsa: le macchine, le mode e i tagli di capelli che cambiano, il passaggio da Bush a Obama, dal Game Boy alla X-Box attraverso il Tamagotchi, l'avvento di Harry Potter, di Lady Gaga e di Facebook. Insomma, la vita che si fa cinema e, al tempo stesso, il cinema che diventa vita;


5) perché Linklater, senza mai eccedere in eccessi cinefili, riesce a catturare con naturalezza lo spettatore avvolgendolo delicatamente nelle spirali del tempo che scorre e facendogli vivere un'esperienza che comprende tutte le ere della vita: così Boyhood diventa uno specchio per i figli e i genitori, per i mariti e le mogli, ma in generale per ognuno di noi quando si trova alle prese con le speranze e le gioie, le emozioni e le paure che sono proprie dell'umanità tutta.


Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

boyhoodmovie.tumblr.com




sabato 25 giugno 2016

Tutti vogliono qualcosa

5 buoni motivi per cui la musica fa dell'ultima opera di Richard Linkater una sorta di American Graffiti 2.0:


1) perché c'è il rap cantato a squarciagola in una sequenza iniziale da Jake - matricola appena arrivata al campus in attesa di cominciare i corsi - e dai suoi nuovi compagni: questa sequenza sancisce l'ingresso ufficiale del giovane lanciatore nella squadra di baseball dell'università texana e, da lì a tre giorni, nell'età adulta. Ed è proprio durante questo breve lasso di tempo prima dell'inizio delle attività scolastiche, che Jake ha modo di vivere una serie di esperienze in grado di fargli capire cosa vuol dire essere un giocatore professionista (il sogno dello stesso Linklater quando era un adolescente) e, soprattutto, smettere di essere un ragazzino per diventare un vero uomo;

2) perché c'è la dance music fatta di balli scatenati, luci stroboscopiche e colori sgargianti, a simboleggiare la voglia dei ragazzi di ballare, divertirsi e non pensare a niente. Per il gruppo l'unica cosa che conta è lo sfoggiare baffi folti e sempre curati, l'indossare vestiti variopinti e il vantare tecniche (più o meno efficaci) per rimorchiare: sono cose come queste ad aprire loro una serie pressoché infinità di possibilità, tutte indistintamente all'insegna dell'entusiasmo, dell'edonismo e del successo facile dovuto al semplice fatto di essere dei giocatori di baseball, vale a dire il meglio che - a prescindere - si può trovare all'interno dell'università;

3) perché c'è il country che descrive la capacità dei giovani di adattarsi a tutte le situazioni, anche quelle che in apparenza sembrano un mero ripiego. Quella fluidità di pensiero che permette loro di non perdere nemmeno un minuto del poco tempo a disposizione (continuamente scandito e ribadito dalle immagini), di godersi la vita fino all'ultimo sorso di birra, consapevoli del fatto che "i confini sono dove ognuno li trova". Con questa frase il film si chiude su un primo piano di Jake sorridente con la testa appoggiata sul banco mentre stanno iniziando le lezioni: un'immagine malinconica legata alla consapevolezza che l'intermezzo ludico è finito, ma al tempo stesso con la convinzione che la vera avventura - il bello, verrebbe da dire - inizia solo ora;

4) perché c'è il punk dove la rabbia prende forma pur non essendo riconducibile a nulla di preciso o di concreto, tant'è che in tutto il film non c'è nemmeno un rimando alla situazione che l'America sta vivendo all'inizio degli anni '80 al di fuori del campus. Che sia un concerto metal o il primo allenamento della squadra o anche solo la più ininfluente partita di ping pong, la cosa importante è metterci dentro tutta l'energia del mondo per non rischiare di perdere l'attimo: perché altrimenti ogni cosa può rivelarsi un'occasione persa in un mondo dove il tempo sembra non essere mai abbastanza e, di conseguenza, sprecarlo fermandosi a riflettere è un lusso che non ci si può permettere.

5) perché c'è il rock, quello di Patty Smith e di Jim Morrison, grazie al quale Jake può finalmente smettere di dover essere un Maschio Alfa e ,dopo 72 ore di irrequietezza, di passaggi da un locale all'altro, da uno stile all'altro, può tornare a essere se stesso. Lo fa mentre si innamora di Beverly, una giovane artista appena conosciuta (due sconosciuti che si innamorano proprio come Ethan Hawke e Julie Delpy a Vienna in Prima dell'alba): allora, se è vero che "tutti vogliono qualcosa" (in originale Everybod Wants Some!! dal titolo di una canzone dei Van Halen), come a chiudere un cerchio perfetto, Jake scoprirà che nel suo caso quel qualcosa è già stato preparato dal destino... da lì in poi starà solo a lui saperlo cogliere in tutta la sua pienezza.


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

www.everybodywantssomemovie.com





martedì 12 aprile 2016

Batman v Superman: Dawn of Justice

5 buoni motivi per cui Batman v Superman: Dawn of Justice riesce nell'ardua impresa di non venire per nulla schiacciato dalla trilogia di Nolan: 


1) perché Ben Affleck e Henry Cavill sono a dir poco perfetti nel caratterizzare Batman e Superman: il primo, invecchiato, tozzo e quasi senza collo, è costantemente mosso dalla rabbia che trasforma il suo "particolare" senso di giustizia in una vendetta privata contro Superman; il secondo invece, talmente potente da essere divenuto un dio sceso in Terra per salvare l'umanità, è costretto a vivere un vero e proprio percorso cristologico. E il punto più alto dello scontro tra i due non è tanto nel combattimento che li vede arrivare (quasi) ad annientarsi, quanto nel dialogo tra Bruce Wayne e Clark Kent durante il quale il miliardario mette in dubbio le azioni che derivano dal potere pressoché illimitato di Superman mentre il secondo, da buon giornalista sempre alla ricerca della verità, contesta i metodi di Batman, a suo avviso più simili a quelli di un giustiziere che di un supereroe; 

2) perché Metropolis e Gotham sono più vicine che mai (non solo da un punto di vista geografico) e rappresentano alla perfezione il punto di contatto tra la luce e l'oscurità: ma così come nello yin e nello yang il giorno si tramuta in notte e la notte in giorno, anche Metropolis e Gotham si rivelano infine strettamente interdipendenti l'una con l'altra, le due metà di un unico cerchio separate solo da una linea curva (il fiume!) che unendosi grazie a Batman v Superman danno vita all'universo... o meglio al DC Extended Universe;

3) perché ci sono due personaggi che dovrebbero essere "di supporto" ma in realtà danno un contributo fondamentale allo sviluppo della storia, ciascuno con le proprie caratteristiche e peculiarità: Wonder Woman (la meravigliosa Gal Gadot), tanto bella quanto saggia, e Lex Luthor (Jesse Eisenberg), talmente folle da sembrare a tratti addirittura una caricatura del Joker, stando sempre ai margini dello scontro tra Batman e Superman, sono in grado di dargli spessore e sostanza riuscendo addirittura, laddove necessario, a mettere una pezza a qualche buco di sceneggiatura;

4) perché le musiche di Hans Zimmer (che aveva composto anche quelle della trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan e di Man of Steel dello stesso Zack Snyder) e di Junkie XL (compositore invece della potentissima colonna sonora di Mad Max: Fury Roadsono epiche: passano attraverso una prima parte malinconica, una seconda più violenta e minacciosa, per concludere con una terza fatta di percussioni apocalittiche. Tra l'altro, con Batman v Superman, Zimmer ha purtroppo dichiarato di aver chiuso definitivamente il capitolo della sua carriera dedicato ai supereroi;

5) perché Zack Snyder non poteva introdurre meglio l'avvento della Justice League: sulla base di una "sensazione" al termine del film infatti, toccherà al vigilante di Gotham, con il fondamentale supporto di Wonder Woman, trovare gli altri metaumani per far nascere la Lega della Giustizia e solo con l'aiuto di Acquaman, Flash e Cyborg (in attesa di capire se in futuro se ne aggiungerà un altro...) i nostri supereroi saranno in grado di fronteggiare la terribile minaccia in arrivo nei prossimi attesissimi capitoli della DC.  


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

batmanvsuperman.dccomics.com




lunedì 14 marzo 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot

5 buoni motivi per cui Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo del nostro Cinema:


1) perché fino ad ora in Italia non si era mai visto niente di simile, pur avendoci tentato qualche anno fa Salvatores con Il ragazzo invisibile ma riuscendoci solo in minima parte (nonostante un budget a disposizione di gran lunga superiore). Tuttavia Lo chiamavano Jeeg Robot è un qualcosa che riesce a prendere il meglio del cinema di puro intrattenimento made in USA mescolandolo alla perfezione con i recenti insegnamenti lasciatici in dono da Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra: ne esce un'opera strepitosa che (più che a un qualsivoglia Spider-Mansi avvicina molto per forma a Unbreakable di M. Night Shyamalan e per sostanza a Kick-Ass di Matthew Vaughn
  
2) perché la regia (di Gabriele Mainetti) e la sceneggiatura calibratissima (di Menotti e Nicola Guaglianone) non hanno nulla da invidiare alle mega-produzioni hollywoodiane e fanno di Lo chiamavano Jeeg Robot un meraviglioso cinefumettone girato in modo veloce e moderno, che eccelle per l'ironia e per alcune trovate istrioniche dei suoi protagonisti: tutto ciò mescolando diversi registri stilistici a seconda che si stiano raccontando i risvolti drammatici di una love-story, la periferia romana e la sua fauna, i problemi di tutti i giorni dei supereroi, o gli attacchi terroristici che incombono su Roma

3) perché Claudio Santamaria (ingrassato di 20 kg per "dare peso" al personaggio) e Luca Marinelli (alias "Lo Zingaro") sono straordinari nel diventare un supereroe e un villain che, con tutte le differenze del caso, richiamano da vicino uno i tormenti e le angosce di Bruce Wayne e l'altro la megalomania e la follia distruttiva del Joker. Quello che però non fa di loro delle semplici macchiette, è l'aver saputo calare queste due figure nella cornice e nel contesto nostrano: hanno i superpoteri certo, ma li usano per svaligiare bancomat e furgoni portavalori (almeno all'inizio...) o per "fare il botto" allo Stadio Olimpico durante il derby e riconquistare così quella fama in passato solo assaporata grazie a Il Grande Fratello... anzi, a Buona Domenica

4) perché se a New York gli Avengers si erano ritrovati a combattere contro giganteschi alieni per salvare la Terra, qui i cattivi sono i piccoli criminali di Tor Bella Monaca o "al massimo" la Camorra che deve gestire i problemi causati da improvvisati spacciatori: non per questo però la lotta tra il bene e il male che ne deriva (per forza di cose anche più realistica) assume risvolti meno profondi. E quindi il percorso di formazione che deve vivere Santamaria (Hiroshi Shiba) nella sua "origin story" per diventare un vero eroe (Jeeg Robot d'Acciaio), passa attraverso bidoni tossici, budini alla vaniglia e film porno, ma anche una storia d'amore delicata e assurda al tempo stesso, per arrivare a uno scontro finale drammatico come ce lo si aspetta in un vero film di supereroi;

5) perché già dal titolo Lo chiamavano Jeeg Robot dimostra tutto il suo coraggio di voler essere un progetto paradossale, in grado di collegare la cultura pop dei fumetti americani con la mitologia più classica dei robot giapponesi e soprattutto con le specificità del territorio in cui la storia si svolge: e quindi, per quanto sia strano sentir parlare in romanaccio un supereroe che "si fa chiamare Jeeg", in attesa di un auspicato secondo capitolo, la scommessa di Mainetti può dirsi ampiamente vinta.   


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4) 


www.lochiamavanojeegrobot.it


giovedì 18 febbraio 2016

The Hateful Eight

5 buoni motivi per cui l'ottavo film di Quentin Tarantino appare il meno riuscito:


1) perché se è normale non aspettarsi ogni volta una trama alla Pulp Fiction, è altrettanto vero che la storia alla base di questo atipico western (il secondo consecutivo dopo Django Unchained), per quanto Tarantino si diverta a strizzare l'occhio ad Agata Christie e ad Alfred Hitchcock e al genere del "mistero della camera chiusa", non si eleva mai al di sopra della sufficienza finendo con il risultare ai limiti del banale. Anche il classico finale con lo "stallo alla messicana", dal quale era lecito attendersi un rilancio forte della posta in gioco, non è così sconvolgente e sa troppo di già visto;

2) perché di tarantinate The Hateful Eight è sì pieno, alcune senza dubbio molto divertenti, ma a volte sembrano eccessivamente vacue e artificiali, quasi scollegate dal contesto... A lasciar l'amaro in bocca è soprattutto l'assenza pressoché assoluta di quelle sconvolgenti invenzioni (sia visive che di linguaggio) che nei film precedenti avevano fatto gridare al genio di Tarantino; 

3) perché il cast è stellare, nessun dubbio in proposito, ma nessuna interpretazione resterà impressa a lungo nella memoria degli spettatori e la sensazione complessiva è che tutti, da Samuel L. Jackson a Kurt Russel, da Tim Roth a Michael Madsen, facciano il minimo sindacale (alcuni forse addirittura meno...): si divertono e divertono, solo che faticano a emozionare nel profondo perché (avendo più o meno gli stessi spazi da gestire) non permettono fino in fondo l'immedesimazione nei loro personaggi; 

4) perché da un punto di vista tecnico The Hateful Eight è inattaccabile: la fotografia di Robert Richardson meravigliosa (anche se di fatto, per esigenze di trama, ridotta al minimo visto che la vicenda si svolge 
quasi interamente all'interno di un luogo chiuso, una carrozza prima e la locanda di Minnie poi), la sceneggiatura solida grazie ai tipici dialoghi tarantiniani (che però alla fine non tutti risultano così divertenti), le musiche a metà tra il western e l'horror semplicemente perfette (Morricone resta inarrivabile)... Tuttavia, una volta assemblati i pezzi, il prodotto che ne esce appare una mera abilità tecnica se non addirittura un esercizio di stile fin troppo (auto)compiaciuto;



5) perché a tratti anche la regia appare svogliata e nel complesso purtroppo poco ispirata: non si nega tanto a Tarantino la solita eccelsa maestria nell'impastare ogni singola scena con il suo infinito bagaglio culturale, quanto l'assenza di quel "sacro fuoco" che da sempre ne ha contraddistinto il cinema rendendolo un genere a sé, lontano da un lato dai cliché hollywoodiani e dall'altro dalla raffinatezza di alcuni (cosiddetti) maestri.


Voto: 2 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4) 

thehatefuleight.com






lunedì 25 gennaio 2016

Revenant - Redivivo

5 buoni motivi per cui la nuova fatica di Alejandro González Iñárritu è il film più potente degli ultimi anni:


1) Perché la natura non è mai stata tanto terrificante in tutta la sua sconfinatezza e la cinepresa di Iñárritu riesce a renderla in modo incredibilmente evocativo grazie agli infiniti virtuosismi cui il regista messicano ci ha da sempre abituati: alberi che tendono fieri verso il cielo, la neve che cadendo fa da collegamento con la terra, fiumi ghiacciati che generano la rinascita, il fuoco come unico elemento in grado di scaldare mani, cuori e anime... ma soprattutto spazi sconfinati (e meravigliosi) in cui è impossibile non perdere se stessi e il senso intero dell'esistenza;
2) Perché c'è una vendetta, tema solenne di ogni western che si rispetti (per quanto poi Revenant non lo sia davvero, almeno nel senso stretto del termine), da portare a compimento a ogni costo attraverso un percorso fatto di neve, fango e sangue. E Leonardo Di Caprio, per la cui interpretazione ogni incensamento è semplicemente superfluo, riesce a farlo in modo silenzioso ed essenziale da un lato, violento e a tratti animalesco dall'altro;

3) Perché il dolore che accompagna Hugh Glass, per quanto bestiale anche solo a viverlo da semplici spettatori, non è tanto quello fisico derivante dallo scontro iniziale con un grizzly che lo lascia in fin di vita e tutto ciò che ne deriva in seguito, quanto quello che lo lacera dal di dentro per aver perso la moglie prima e il figlio poi a causa della follia, dell'egoismo e della cattiveria degli uomini, senza distinzioni di sorta, siano essi indiani, francesi o americani;  

4) Perché questa storia ci insegna in modo estremamente lineare che ogni uomo, per quanto possa essere sempre in bilico tra bene e male, alla fine della vita si ritrova pur sempre a dover fare i conti con Dio: un Dio che per alcuni è rappresentato da un semplice "scoiattolo da divorare" mentre per altri è il ricordo straziante (che arriva sotto forma di sogno o di visione) di tutto quello che c'era e che non c'è più;

5) Perché Revenant è la gelida narrazione di un viaggio vero, realmente compiuto nel 1822 da Hugh Glass il quale percorse più di 300 chilometri tra indicibili difficoltà, tenuto in vita in questa folle odissea solo dall'ossessione di ritrovare quel soldato (nel film un magnifico Tom Hardy addirittura senza scalpo per l'occasioneche lo aveva tradito abbandonandolo morente in un fosso. Un viaggio impossibile anche solo a pensarlo, eroico nel suo divenire, epico nella conclusione.


Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)