mercoledì 5 marzo 2025

5 buoni motivi per cui A Complete Unknown è un'opera in grado di rendere perfettamente il caos creativo e la genialità di Bob Dylan:


1) perché Timothée Chalamet riesce a catturare l'essenza del giovane Dylan con una performance magnetica e ipnotica, bilanciando perfettamente l’arroganza e la vulnerabilità di un artista in fase di formazione. La sua voce, il suo modo di muoversi e la sua capacità di rendere il linguaggio enigmatico di Dylan rendono la sua interpretazione oltremodo stratificata e credibile;

2) perché James Mangold adotta un approccio elegante e raffinato che, senza cadere nell’agiografia, evita la classica linearità del biopic, preferendo una narrazione che alterna momenti più intimi a sequenze che flirtano con la leggenda. A Complete Unknown non cerca di spiegare Dylan ma di farne percepire l'essenza mostrando i contrasti tra il suo genio artistico e la sua volontà di sfuggire a ogni definizione;

3) perché la ricostruzione del Greenwich Village degli anni ’60 è vibrante e autentica, con una fotografia che cattura il fumo dei club, le strade affollate e il fermento artistico di un'epoca in trasformazione. La scenografia e i costumi contribuiscono poi a rendere A Complete Unknown un vero e proprio viaggio nel tempo, restituendo l’energia grezza di quegli anni;

























4) perché la musica di Dylan, ovviamente elemento centrale di tutto il film, viene trattata con 
grande rispetto: piuttosto che limitarsi ai successi più noti, A Complete Unknown esplora il suo repertorio meno commerciale, arricchendo la narrazione con scelte musicali che rispecchiano i momenti di svolta della sua carriera. Inoltre, l’uso di performance dal vivo e di registrazioni originali crea un legame potente tra la finzione filmica e la realtà storica;

5) perché A Complete Unknown non cerca di definire in modo netto o definitivo la sfuggente personalità di Bob Dylan, ma abbraccia tutte le sue (infinite) contraddizioni: da un lato il ragazzo di provincia che diventa la voce di una generazione e poi rinnega quel ruolo, dall’altro l’artista che vuole costantemente reinventarsi. A Complete Unknown riesce così a rendere omaggio al Menestrello rispettando la sua natura elusiva e lasciando allo spettatore la libertà di interpretare chi fosse veramente.


Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)





martedì 4 marzo 2025

Conclave

5 buoni motivi per cui Conclave trasforma abilmente l’elezione del Pontefice in un thriller sull’animo umano:


1) perché Edward Berger dimostra la stessa sensibilità estetica e narrativa già vista in Niente di nuovo sul fronte occidentale, costruendo un thriller psicologico fatto di sguardi, silenzi e movimenti impercettibili. Il ritmo misurato della sua regia, lontano da ogni tipo di sensazionalismo, amplifica il senso di claustrofobia e paranoia che si avverte dentro la Cappella Sistina, così come il lavoro sulla luce e sulla composizione delle inquadrature che creano un senso di sacralità oppresso dal peso della politica e dell’ambizione dei cardinali; 

2) perché i dialoghi sono calibrati ma mai didascalici, e riescono a dare spessore a ogni personaggio, trasformando il conclave in un vero e proprio campo di battaglia intellettuale e spirituale. Conclave bilancia perfettamente il realismo documentaristico con la tensione di un thriller, evitando ogni facile manicheismo e lasciando spazio alle ambiguità morali e alle dinamiche di potere all’interno della Chiesa;

3) 
perché la prova attoriale di Ralph Fiennes dimostra ancora una volta la sua capacità di dominare la scena con intensità e misura: il suo cardinale Lawrence è un uomo dilaniato tra fede e dovere, che si muove tra le pieghe della verità con una gestualità sempre estremamente calibrata. L’interpretazione di Fiennes, magnetica ma mai sopra le righe, comunica una tensione interna quasi palpabile che rende il suo dilemma morale il vero fulcro emotivo del film; 

4) perché la sobria fotografia di James Friend gioca su luci soffuse che enfatizzano l’austerità dell’ambiente e il peso della storia che si respira nelle stanze del Vaticano. L’uso della profondità di campo e delle inquadrature statiche accentua inoltre un senso di immobilismo e solennità, mentre movimenti di macchina lenti e misurati suggeriscono il lavorio costante delle strategie politiche dietro ogni decisione che viene presa;


5) perché
Conclave non è solo un dramma politico né un semplice thriller ecclesiastico, ma 
una vera e propria indagine sull’animo umano quando viene messo di fronte a scelte definitive: riesce così a diventare accessibile anche a chi non ha una conoscenza approfondita delle dinamiche vaticane, rendendo universale il suo discorso sulla fede, l’etica e il potere.


Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)




lunedì 17 febbraio 2025

Giurato Numero 2

5 buoni motivi per cui Giurato Numero 2 è un film di Clint Eastwood nella sua essenza più pura:


1) perché esplora temi complessi tipicamente eastwoodiani quali la colpa, la verità e la giustizia, attraverso la storia di Justin Kemp, un giurato che quando inizia il processo scopre di avere legami personali con il crimine su cui è chiamato a votare. Giurato Numero 2, in modo raffinato e machiavellico, solleva una serie di interrogativi sulla moralità e sull’etica di alcune scelte individuali che in situazioni estreme potrebbero essere prese da ciascuno di noi; 

2) perché Eastwood adotta, come sempre, uno stile di regia sobrio focalizzandosi sui personaggi e sulle loro emozioni senza ricorrere a inutili orpelli tecnici: questa scelta essenziale amplifica l'impatto emotivo della storia mettendo in risalto la complessità del sistema giudiziario. Eastwood evita abilmente qualunque eccesso visivo e muove la sua macchina da presa con calma lasciando che siano i volti, gli sguardi e i silenzi a raccontare il dramma: l'illuminazione naturale e i colori neutri, inoltre, contribuiscono a creare un senso di realtà cruda che trasforma il tribunale in un’arena dove si gioca la battaglia tra giustizia e verità. Anche la colonna sonora minimalista lascia spesso spazio a silenzi carichi di significato che rafforzano l’angoscia del protagonista;

3) perché le interpretazioni attoriali sono di altissimo livello: Nicholas Hoult offre una performance intensa e divisiva nel ruolo di Justin Kemp dilaniato da un conflitto interiore che lo rende simbolo della fragilità umana, mentre Toni Collette interpreta con maestria il procuratore Faith Killebrew la cui carriera dipende in gran parte dall’esito del processo e incarna da un lato la determinazione della giustizia e dall’altro le ambiguità di un sistema che spesso confonde la ricerca della verità con la necessità di ottenere una condanna. Le loro interazioni contribuiscono gradualmente a creare una tensione sempre più palpabile che mantiene gli spettatori coinvolti dalla prima all’ultima scena;

4) perché mette in luce come i pregiudizi personali possano influenzare le scelte dei giurati, invitando lo spettatore a riflettere sulla complessità della ricerca della verità e sull'imparzialità della giustizia: la risposta non è mai facile né immediata ed è per questo che Eastwood esorta a riflettere su come si possa essere davvero imparziali nel giudicare qualcuno e su quanto il sistema giuridico americano, costruito su umane debolezze, possa garantire una giustizia davvero autentica;
5) perché si inserisce armoniosamente nella lunga carriera di Eastwood che già in numerose altre opere (Unforgiven, Mystic River, Gran Torino…) aveva interrogato la natura umana e le sue contraddizioni, esplorando i confini sfumati tra giustizia e vendetta, eroi e antieroi, legge e moralità. Giurato Numero 2 rientra nel solco della sua filmografia ponendosi come l’ennesima splendida riflessione su come il peso delle azioni passate possa condizionare il presente e su quanto in situazioni di ambiguità etica sia difficile discernere il bene dal male. 


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)




martedì 24 dicembre 2024

Tetris

5 buoni motivi per cui Tetris è un film in cui ogni mattoncino si incastra alla perfezione:


1) perché la sceneggiatura di Noah Pink riesce a intrecciare dinamicamente gli elementi di tensione di un thriller politico con la narrazione biografica della vera storia di Henk Rogers, l'imprenditore che durante la Guerra Fredda lottò per i diritti di distribuzione globale del celebre videogioco. In costante equilibrio tra intrattenimento e approfondimento storico, Tetris rende coinvolgente una vicenda che sulla carta avrebbe potuto risultare complessa o eccessivamente tecnica: invece, attraverso dialoghi vivaci e un tono a metà tra l’ironico e il drammatico, le dinamiche geopolitiche e legali (benché a tratti siano volutamente didascaliche) vengono rese accessibili e avvincenti senza mai sacrificarne la complessità; 

2) perché la colonna sonora a 8 bit è un brillante omaggio alla cultura dei videogiochi anni Ottanta: in bilico tra nostalgia e modernità, la musica composta da Lorne Balfe utilizza sonorità chiptune e sintetizzatori retrò, evocando immediatamente l'estetica del gioco originale e immergendo lo spettatore nell'atmosfera dell'epoca. Punto di forza è la reinterpretazione del classico tema Korobeiniki, rielaborato con energici arrangiamenti elettronici che amplificano la tensione e il dinamismo delle scene chiave. Le musiche non si limitano a richiamare il passato ma, grazie alla coerenza stilistica e al legame con l'identità visiva del film, diventano una parte essenziale dell'esperienza integrandosi alla perfezione con il ritmo serrato della narrazione e accentuando i tanti momenti di suspense;

3) perché i personaggi sono un mix riuscito di eroi carismatici e crudeli antagonisti, ognuno con una chiara funzione narrativa e un legame con il contesto storico-politico del racconto. Henk Rogers (interpretato con grande energia da Taron Egerton) è il cuore pulsante della storia: imprenditore visionario e intraprendente, riesce a conquistare tutti grazie alla sua empatia e alla capacità di affrontare anche le sfide impossibili. Il suo rapporto con Alexey Pajitnov, il creatore del gioco, aggiunge profondità emotiva alla trama, mostrando un’alleanza sincera e un legame basato sul rispetto reciproco e sulla comune passione per la programmazione. Sul fronte opposto, gli antagonisti – tra cui spiccano funzionari sovietici e spietati uomini d'affari occidentali – sono ben caratterizzati, rappresentando l’avidità e l’opportunismo di un’epoca segnata dalla Guerra Fredda: pur essendo talvolta rappresentati in modo stereotipato, i “cattivi” svolgono un ruolo cruciale nell’aumentare la tensione e nel creare un netto contrasto con i “buoni”;


4) perché le ambientazioni sono uno degli aspetti più affascinanti della pellicola: la ricostruzione degli anni Ottanta, sia degli Stati Uniti che dell’Unione Sovietica, è realistica e immersiva, con dettagli che catturano l’estetica e l’atmosfera di quel periodo. I contrasti visivi tra i luoghi riflettono efficacemente le tensioni della Guerra Fredda: i vivaci uffici delle aziende occidentali brillano di colori accesi e ottimismo capitalista, mentre le cupe e austere architetture sovietiche comunicano rigidità e oppressione. Mosca, in particolare, è rappresentata con una palpabile sensazione di claustrofobia e sorveglianza che accentua la tensione drammatica. Le sequenze che mescolano ambientazioni reali con elementi visivi ispirati al design pixel art di Tetris (scelta audace ma riuscita), aggiungono un tocco stilistico unico creando un connubio tra realtà storica e omaggio al mondo dei videogiochi;

5) perché la filosofia di Tetris di Jon S. Baird riflette in modo sorprendente lo spirito del gioco che celebra: alla base del racconto c’è l’idea di costruire qualcosa di significativo superando ostacoli complessi proprio come nel videogame dove ogni pezzo deve trovare il suo posto per creare ordine dal caos. In un mondo diviso da barriere ideologiche, la determinazione di Henk Rogers e Alexey Pajitnov nel lottare contro potenti interessi politici ed economici, rispecchia il concetto del giocatore di Tetris che non si arrende mai, anche di fronte a livelli apparentemente insuperabili. Tetris non è solo una storia di diritti legali e conquiste tecnologiche, ma un’esaltazione della perseveranza umana e del potere della creatività, in perfetta armonia con l’essenza stessa del gioco: un gioco semplice ma coinvolgente, capace di trascendere ogni confine geografico e linguistico. 


Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

tv.apple.com/tetris


giovedì 2 novembre 2023

Killers of the Flower Moon

5 buoni motivi per cui Killers of the Flower Moon è un film sontuoso e monumentale:


1) perché è l’opera di un Maestro arrivato all’apice della sua arte e della sua poetica e segna il culmine di una delle carriere più longeve della storia cinematografica americana: dalle prime pellicole quali Taxi Driver e Toro Scatenato fino a capolavori più recenti come The Departed e The Wolf of Wall Street, grazie anche alle collaborazioni storiche con Robert De Niro e Leonardo DiCaprio (rispettivamente la decima e la sesta con il regista italo americano), il nome di Martin Scorsese è ormai divenuto sinonimo di Cinema e a ottant’anni si dimostra ancora magnificamente in grado di intraprendere un viaggio memorabile attraverso i meandri dell'oscurità umana;

2) perché Scorsese ci racconta una storia vera che in pochi conoscono e oggi riconosciuta da tutti come un vero e proprio genocidio: Killers of the Flower Moon, infatti, è l’adattamento dell’acclamato saggio di David Grann - Gli assassini della terra rossa. Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’FBI. Una storia di frontiera - e si concentra sull'eliminazione sistematica dei membri chiave degli Osage, un popolo di nativi americani che durante la seconda metà del XIX secolo, su obbligo del governo americano, si stabilì in Oklahoma e diventò ricco grazie alla presenza del petrolio nella loro riserva. Le terre degli Osage vennero presto invase da criminali e speculatori intenzionati ad appropriarsi della loro ricchezza con qualunque mezzo necessario, omicidio compreso, il che più che un western alla John Ford rende il film un noir atipico e spiazzante;

3) perché è un racconto - torbido come il petrolio - di quel male presente in modo silente ma viscerale nella Storia americana sin dalle sue origini. Tema da sempre ricorrente nella cinematografia di Scorsese, Gangs of New York su tutti. La morale che se ne può trarre, è tanto emozionante quanto attuale in un momento in cui le questioni e le voci dei Primi Popoli vengono portate alla ribalta non solo negli Stati Uniti ma anche in Australia e nel resto del mondo: il film utilizza il matrimonio tra il viscido DiCaprio e la pura Gladstone come metafora del rapporto tra i colonizzatori americani e la popolazione dei nativi, un rapporto sempre in chiaro-scuro (proprio come la fotografia) basato sulla forza e sulla violenza, una violenza spesso più psicologica che fisica;


4) perché Killers of the Flower Moon è un film all’antica e rappresenta quel genere di cinema definito “epico” che richiede di esser visto sul grande schermo: Scorsese, infatti, non ha solo contribuito alla stesura della sceneggiatura insieme allo scrittore premio Oscar Eric Roth, ma si è anche assicurato che i costumi, le acconciature, il trucco e la scenografia ricreassero perfettamente l'epoca e l'ambientazione di inizio ‘900. Oltre a questa scrupolosa attenzione ai dettagli, sono le riprese su larga scala del direttore della fotografia Rodrigo Prieto (che aveva già collaborato con Scorsese in The Wolf of Wall Street, Silence e The Irishman) e una colonna sonora blues e rock di evocativa portata, a rendere necessaria l’esperienza in sala;

5) perché per oltre tre ore il film non ha nessuna grande accelerazione e il ritmo resta lento e quasi ipnotico: la tensione si basa invero sul bruciante e conflittuale dualismo tra due mostri sacri come DiCaprio e De Niro, grottesco il primo e mefistofelico il secondo. Ma ad aver stupito tutti per la sua delicata interpretazione è stata la straordinaria Lily Gladstone: moglie di DiCaprio e vittima simbolica del martirio di tutta la nazione Osage, è lei il vero fiore, colorato e raggiante, che rischia di venire ucciso dall’avidità e dalla perfidia dell’uomo bianco. Ottimo poi anche il cast di supporto, tra cui spiccano Jesse Plemons e un ormai ritrovato Brendan Fraser.



Voto: 3 stelline e mezzo (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

https://www.killersoftheflowermoonmovie.com/




mercoledì 30 agosto 2023

Oppenheimer

 5 buoni motivi per cui Nolan con Oppenheimer è arrivato davvero vicino a Kubrick:

 

1) perché Nolan dirige un parterre stellare di attori e attrici, su cui spiccano Cillian Murphy e Robert Downey Junior, dando a ciascuno il giusto spazio all’interno di una storia corale nella quale – come in 2001 Odissea nello spazio – tutto è collegato: Emily Blunt, Matt Damon, Florence Pugh, Rami Malek, Josh Hartnett, Gary Oldman, Casey Affleck, Kenneth Branagh e tanti altri, sono gli atomi di una reazione nucleare a catena in cui ognuno ha la sua parte di meriti (e di colpe) a partire dagli inizi degli studi sull’atomo fino ad arrivare al bombardamento di Nagasaki e Hiroshima; 

2) perché Nolan riesce a scrivere e magistralmente a dirigere un film su Oppenheimer uomo e scienziato, che diventa un film sulla Storia anche grazie a una fotografia la cui importanza è simile a quella di Barry Lindon: lo fa per merito di una serie di scelte stilistiche che, passando senza sosta dal colore al bianco e nero, intrecciano da un punto di vista cromatico l’ottimismo intrinseco nel lavoro di Oppenheimer con la freddezza e l’asetticità della guerra e della politica;

3) perché richiamando alla memoria le implicazioni filosofiche presenti nelle maglie narrative de Il dottor Stranamore, Nolan trasforma un film storico ed epico incentrato sulla bomba atomica e sulla seconda guerra mondiale in un vero e proprio thriller esistenziale dove Oppenheimer diventa un novello Prometeo tormentato dal suo genio: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi” recita, infatti, lo scienziato citando il testo sacro indù del Bhagavad Gita dopo il primo test nucleare nel luglio del 1945, ben sapendo che – anche a causa sua – da lì in avanti il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Per tutto il film (e per tutta la vita) Oppenheimer sembra restare schiacciato dal senso di colpa di aver “solo fatto il suo dovere” di fisico senza riuscire a perdonarsi l’aver indagato il miracolo dell’atomo;












4) perché anche se Oppenheimer è un film prettamente visivo, Nolan ha chiesto a Ludwig Goransson, già suo collaboratore in TENET, delle musiche che oltre a creare una forte tensione emotiva, ben si adattassero al crescendo di preoccupazioni morali di Oppenheimer: ne esce una colonna sonora fatta di archi e violini talmente ossessivi che, al pari della Nona Sinfonia di Beethoven in Arancia Meccanica costantemente e visceralmente legata alle azioni del drugo Alex, per lunghi tratti addirittura oscura i dialoghi sullo schermo come fosse il suono di un’esplosione atomica che tutto azzera;

5) perché Nolan, grazie a una sceneggiatura che scorre via fluida per tre ore (al contrario di quanto era avvenuto in TENET), mette in piedi un’architettura in grado di raccontare i vari momenti della vita di Oppenheimer attorcigliandoli su tre diversi piani temporali: saltando avanti e indietro nel tempo e spaziando tra punti di vista soggettivi e oggettivi, Nolan sospende ogni giudizio morale su Oppenheimer limitandosi a evidenziare la complessità dell’essere diventato “il padre della bomba atomica” e le contraddizioni di un uomo chiamato a far i conti con la morte. Esattamente come il soldato Joker di Full Metal Jacket (l’indimenticato Matthew Modine tra l’altro presente anche in Oppenheimer seppur in un ruolo minore) che sull’elmetto, a fianco il simbolo della pace, aveva la scritta Born to kill a rappresentare la schizofrenia della guerra.

 

 

Voto: 4 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)

 

https://www.oppenheimer-ilfilm.it/

lunedì 29 agosto 2022

Nope

5 buoni motivi per cui Nope è per Jordan Peele il film giusto al momento giusto: 


1) perché è un horror che però ha il grande merito di distaccarsi per forma e contenuto dalle due precedenti opere di Peele: mentre Get Out (sfolgorante pellicola d’esordio che gli ha garantito l’Oscar per la miglior sceneggiatura) e, con le dovute differenze, Us potevano essere incasellati alla perfezione nel genere, Nope – pur presentando i principali stilemi orrorifici – nel suo insieme lo è in modo atipico e sui generis, riuscendo così ad allontanare il talentuoso regista newyorkese da una classificazione che, se oggi va di gran moda pensando ad esempio a Robert Eggers e ad Ati Aster, alla lunga avrebbe corso il rischio di andargli stretta (Shyamalan insegna);
 
2) perché è un classico film di fantascienza in perfetto stile E.T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo ma, come viene intelligentemente detto da uno dei personaggi, qui non si parla più di UFO (Unidentified Flying Object) bensì di UAP (Unidentified Aerial Phenomena). E non si tratta di una distinzione solo onomastica – tant’è che anche la Nasa e il Pentagono oggi indagano ufficialmente e scientificamente questi fenomeni – ma sostanziale, perché l’alieno di Peele è lontano anni luce da quelli di Spielberg: in Nope viene descritto come un “brutto miracolo”, violenta metafora dei tempi che cambiano, essendo più un predatore territoriale arrabbiato e vorace che un simpatico omino verde alla disperata ricerca di un modo per tornare a casa;

3) perché è un western a tutti gli effetti, con tanto di ranch e cavalli, che permette a Peele di dichiarare tutto il suo amore per il Cinema grazie a quello che viene definito il “genere americano per eccellenza”. Lo fa attraverso la storia dei due fratelli protagonisti, discendenti di una famiglia di ammaestratori di animali per le Major hollywoodiane nonché pro-nipoti del fantomatico fantino che era al galoppo di un cavallo in uno dei primi esperimenti cinematografici della storia (la serie di figure Animal Locomotion del 1872 di Eadweard Muybridge). Ma soprattutto Peele sfrutta al meglio le potenzialità che il western gli concede: tecnologia IMAX per campi lunghissimi a mostrare lande desolate o cieli pieni di nuvole (nascondigli aerei semplicemente perfetti), e spericolate corse a cavallo per ricreare un immaginario che rimanda volutamente agli inseguimenti tra indiani e cow-boy;

4) perché è una lucida pellicola di denuncia e aspra critica sociale che, al contrario di quanto successo in passato, dove Peele si era concentrato sulla questione afroamericana principalmente rispetto ai temi del razzismo e delle disparità tra classi sociali, si apre ora a tutta la società: quello che viene messo sotto l’occhio del riflettore, infatti, è l’attuale smania di condivisione che trova nei social e nei media i principali strumenti per alimentare in modo morboso e alienante la voglia di “guardare”. Attraverso uno spettacolo nello spettacolo, Nope demonizza le leggi della medialità e la moderna necessità di trasformare ogni cosa e ogni momento in un show a discapito di una dimensione più intima e privata;

5) perché in fondo, al di là di qualsiasi rimando filosofico nascosto dietro alle nuvole e oltre ogni messaggio universale consacrato nella cruenta scena del massacro televisivo ad opera di una scimmia assassina (sicuramente il momento più inquietante di tutto il film con evidenti rimandi a una violenza di kubrickiana memoria), Nope è un perfetto blockbuster estivo: due ore di fughe mozzafiato, inquietanti attese, misteri angoscianti e, molto probabilmente, destinati a restare tali in nome di un orrore cosmico che il più delle volte – come ci ha insegnato Lovecraft – sfugge all’umana comprensione e alla necessità di trovare risposte a ogni fatto enigmatico. 


Voto: 3 stelline (ovviamente nella scala del Mereghetti dove il massimo è 4)